Simboli religiosi, ovvero la disintermediazione della Fede
Simboli religiosi in politica, la questione forse sta sfuggendo di mano.
Se Repubblica di ieri (foto in basso) è riuscita addirittura a farci la prima più bella del giorno – geniale ai livelli del “Pastore tedesco” del Manifesto -, vuol dire che il tema ha davvero assunto centralità nel dibattito politico.
In questa sede, naturalmente, non ci addentriamo in considerazioni di tipo politico.
Piuttosto, ci interessa capire come e quanto la simbologia religiosa abbia condizionato il dibattito. Da entrambe le parti.

Anzi, da tutt’e tre le parti, considerato che l’ultima tirata di orecchie che Conte ha fatto a Salvini nel Discorso delle Dismissioni (hai letto bene) ha riguardato proprio “l’utilizzo di simboli religiosi accanto a slogan politici”.
In principio, neanche a dirlo, fu Salvini, che brandì un Vangelo giurandoci su. Nel comizio di dicembre scorso in Piazza Duomo, a Milano, tirò fuori un rosario e affidò il popolo italiano al “Cuore Immacolato della Vergine Maria” (ultima foto in basso).
Non immune neanche Conte, che “su induzione” di Bruno Vespa mostrò la figurina di San Pio da Pietrelcina (seconda foto).
Dopo “il fattaccio” di Milano, il ministro dell’Interno ha ripetuto il gesto in qualunque momento utile: nella conferenza stampa post Europee, ospite di Vespa a “Porta a Porta”, martedì in Senato, nei comizi in giro per l’Italia.
Così facendo, aveva “sdoganato” un elemento – quello fideistico – che per natura è intimo, riservato. Dal punto di vista comunicativo, si può parlare di disintermediazione della Fede, che diventa quasi un qualcosa di palpabile, di visibile. La Fede disintermediata si evidenzia nell’ostentazione di quei simboli religiosi una volta utilizzati nel chiuso di una stanza, nel raccoglimento di una cappella.

Già a dicembre, Salvini – che con quel gesto era andato a pescare nei tratti ancestrali del suo partito – aveva dettato l’agenda, riuscendo a portare il mondo politico dietro di sé.
Difatti, a cascata, tutti a parlarne. Dal Vaticano – che però ha sempre manifestamente e convintamente appoggiato e fatto votare lo Scudo crociato – fino ai partiti, nessuno escluso. L’ultimo a farlo, in ordine di tempo, è stato Giuseppe Conte.
Deve valere davvero tanto l’immissione nel dibattito politico della simbologia religiosa, se se ne discute così tanto. E se addirittura un presidente del Consiglio ne rimprovera pubblicamente l’utilizzo a un suo ministro.
Inoltre, lo stesso Salvini non è certo tipo da fermarsi dinanzi a qualche critica. Tutt’altro: l’“uno contro tutti”, di cui abbiamo già scritto (leggi qui e qui), è proprio quello che cerca, per fornire al suo bacino potenziale un nemico contro il quale riconoscere le proprie assonanze.

E quali migliori nemici, nella (ancora) cattolicissima Italia, di quei politici da considerare come, a loro volta, nemici della Fede?
Pensa al dibattito in Senato di martedì.
- Conte che bacchetta Salvini per l’utilizzo di simboli religiosi.
- Salvini che in un nanosecondo tira fuori il rosario e bacia il crocifisso.
- Sempre Salvini che cita San Giovanni Paolo II e poi si definisce (“Eccomi, sono qui”, a braccia larghe a mo’ di crocifissione, appunto) bersaglio delle pesanti critiche appena ricevute da Conte.
- Renzi che rimprovera Salvini per aver sporcato la laicità dello Stato ma un secondo più tardi cita un passo del Vangelo (“ovviamente secondo Matteo“).
- Morra che accosta l’esibizione del crocifisso ai codici linguistici della ndrangheta.
Insomma, tutti ad affannarsi per dire che i simboli religiosi devono star fuori dal dibattito.
Ma tutti – di diritto o di rovescio – a citarli o utilizzarli per bacchettare o argomentare. Se non è catechismo, ci manca davvero poco.
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