L'Italiano Vero

Identità culturale e lingua, l’esperta: “È tutto un equilibrio”

15/09/2019

Identità culturale e lingua, l’esperta: “È tutto un equilibrio”

Identità culturale e evoluzione linguistica?

Due giorni fa (leggi qui) abbiamo scritto che l’edizione 2020 dello storico vocabolario Devoto-Oli ha aggiunto oltre 400 neologismi, provenienti dai più disparati ambiti della società.

Abbiamo parlato di questo processo con Letizia Ciancio, psicologa, stimata mental coach e relatore pubblico (vedi Daimon-coaching.org e Letiziaciancio.com). È autrice di pubblicazioni sui temi relazionali ed evolutivi – “Essere padre, essere madre” e “Il cambiamento. Comprendere e guidare il cambiamento nella società contemporanea”.

La Ciancio ha analizzato con noi il rapporto tra evoluzione e identità culturale, con riferimento particolare alla lingua.

Letizia, possiamo considerare molte di queste parole come mere contaminazioni?

“Contaminazioni e fusioni. Mi spiego: ci sono molti termini che in Italiano non abbiamo e che invece sono omnicomprensivi. Si pensi a leadership. É una parola intraducibile, va molto oltre il carisma, e quindi la assumi nel parlato così com’è.

Altre parole che noi non possediamo, essendo la nostra lingua molto più di dettaglio, mischiano forme grammaticali da noi non applicate a dei sostantivi verbalizzati. Penso a docciarsi per farsi la doccia o messaggiare per scrivere un messaggio. Servono solo per fare prima a parlare”.

Letizia Ciancio nel corso di uno dei suoi frequenti interventi da relatore

Un po’ come piegare la lingua per accorciare il nostro impegno nella parola?

“Esatto, come la utilizzassimo in maniera strumentale per abbreviare una frase. Questo vale soprattutto nel linguaggio parlato. Nello scritto si tende ancora a preservare la purezza del linguaggio. Ma nel parlato si tende alla brevità, per un vincolo di tempo oltre cui non si va. La novità è che si utilizza il parlato anche nelle chat e nel linguaggio da social.

L’abitudine è quindi quella di utilizzare parole compresse e contratte, e la differenza con le altre lingue è evidente. Un testo in inglese di una pagina viene tradotto in italiano in due pagine”.

Dunque, c’è da considerare questo fenomeno positivamente o no?

“Per certi versi lo trovo interessante e positivo, perché è come se adottassimo termini con un significato che i nostri non hanno. Accade in altre lingue. Ad esempio, non riesco a tradurre il nostro ‘magari!’. L’inglese ‘maybe’ risulta molto adattato”.

Sembra però una tendenza propria solo di noi italiani.

“Diciamo che ne abbiamo l’abitudine – anche per un fatto, come detto, di significato delle nostre parole -, ma anche i francesi non ne sono immuni. Ma in generale, dove la lingua è più sintetica e più pragmatica, traduce un carattere della popolazione. Ma tutto riguarda un ambito più ampio, quello culturale“.

A tuo avviso, tendere sistematicamente verso la parola non italiana non può relegare nel dimenticatoio la nostra? In questo senso, può essere un’abitudine pericolosa?

“Sì, credo sia un crinale. Da un lato, se ci pensi, c’è una difesa culturale di un popolo, che ha a che fare con la propria identità culturale.

Ma, partendo da Baumann e dal suo concetto di liquidità, la globalizzazione e la contemporaneità sono le categorie che maggiormente mettono a repentaglio l’identità.

Prima, vivendo una vita molto più confinata, avevamo un’identità, e tutto andava in coerenza a essa: i codici comportamentali e relazionali. Nel momento in cui tutto ciò comincia a intersecarsi, bisogna trovare una sorta di esperanto comportamentale che abbia a fattor comune alcuni elementi.

Non tutto, perchè naturalmente devi preservare la tua identità di fondo. Ma le tue caratteristiche meno identitarie le devi un po’ contaminare. Ciò che viene percepito come minaccioso è proprio questo strappo alla propria identità“.

I due libri scritti da Letizia Ciancio

Ma non è che ognuno ha la propria identità?

“Proprio così. Non c’è una sola identità, ma ognuno ha la propria. Ognuno ha un compositum identitario che si sviluppa da un tronco comune e che poi è fatto da elementi varianti in base ai contesti, ai caratteri.

Per la lingua è un po’ la stessa cosa. C’è un tronco di base, che ha a che vedere con forma grammaticale, consecutio temporum e profondità nella ricerca del significato. Elementi che in Italiano ci sono e in altre lingue no, che noi difendiamo e che hanno fatto la Storia della nostra lingua, dandoci appunto un’identità linguistica.

Dunque, ciò che tutti temono è la perdita della nostra identità culturale. Perciò bisogna sempre muoversi in punta di piedi, perché da un lato è vero, dall’altro, in una logica di identità plurima, è una transizione identitaria.

Come quando vai in giro per il mondo. Non è che cessi di essere italiano o rifiuti la tua italianità. Ognuno la interpreta in un modo, se la porta dietro come un patrimonio, ma poi la unisce ad aspetti adottati da altri”.

Però ci sono alcune popolazioni fortemente ancorate alla loro lingua.

“Vero. Specie quella francese e quella spagnola, che chiamano ordenador e ordinateur quello che noi chiamiamo computer. Sono d’accordo col principio di utilizzare un termine della propria lingua quando rende perfettamente l’idea del concetto”.

Diversamente, l’utilizzo di parole non proprie è concepito quasi come il telefono cellulare negli anni 90: un modo per auto-identificarsi.

“Sì, è come la borsa di Fendi. Una etichetta categoriale per dire ‘appartengo a quel ghetto’. Se leggi un business plan trovi una parola inglese alternata a una italiana. É un modo per dire ‘appartengo alla categoria business e non a quella, ad esempio, degli artisti'”.

La parola magica potrebbe essere ‘equilibrio’.

“Proprio così. Ma non un equilibrio statico. È una danza, un’oscillazione al ritmo di musica, ma senza rincorrerla né anticiparla. Piuttosto, standoci dentro e cogliendo elementi identitari ed elementi di innovazione.

Dobbiamo imparare a governare la contaminazione, lasciando fermi i punti della nostra identità di base“.

Veniamo specificamente al Devoto-Oli e alle centinaia di neologismi dell’edizione 2020. Quanto può essere importante il fattore esterno – in questo caso la sostenibilità ambientale – nell’evoluzione di una lingua?

“Da un lato la sostenibilità è un argomento da mainstream, di cui non possiamo fare a meno e che va ben oltre l’ambiente. Il rischio, denunciato un po’ ovunque nei consessi internazionali, è la polarizzazione, la formazione di categorie stagne: o sei di qua o sei di là. Bisogna imparare a gestire queste polarità, oscillando armoniosamente tra le due.

Ma la sostenibilità, che aggancia aspetto ambientale e aspetto economico, non sempre dà lo stesso risalto a entrambi. Ad esempio, in un determinato momento può essere prioritario dare risalto a uno dei due perché è più critico.

Per quanto riguarda l’aspetto semantico, vorrei precisare un dato. Il linguaggio ha prodotto l’intelligenza, ma poi ne diventa causa. Diversamente dagli animali, però, l’uomo sa attribuire significati condivisi a elementi simbolici, cioè astratti.

La concordanza, all’interno di una stessa popolazione, intorno a un sistema di simboli e significati è quello che ha sviluppato non solo questa incredibile capacità sociale dell’uomo, ma la sua intelligenza“.


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