La mitezza di Conte. Breve analisi del linguaggio presidenziale
La mitezza di Conte ci ha sorpreso.
Annegati, avviluppati e avvezzi a un dibattito completamente polarizzato, abbiamo accolto questo nuovo player con curiosità.
E – diciamo la verità – siamo rimasti spiazzati dal linguaggio del presidente del Consiglio, dal suo porsi gentile e cortese.
All’inizio, la mitezza di Conte era vista come una mosca bianca tra le esagerazioni e le estremizzazioni linguistiche proprie della politica.
La sua mitezza è la cifra del suo comportamento, mai sopra le righe, e del suo linguaggio. Ci ha fatto specie il giorno in cui Berlusconi gli ha voltato le spalle, lasciandolo con la mano tesa a mezz’aria, e lui non ha detto nulla.
Conte non è monotono, ma un monotòno. Utilizza sempre la stessa tonalità: quando è arrabbiato, quando è sereno o quando è così così. La differenza la fa lo sguardo. Alla giornalista che sabato ad Amatrice gli ha chiesto di Salvini, ha risposto con lo stesso tono ma col viso ben corrucciato: “Lei è ossessionata da Salvini”.
Ma è un linguaggio che rompe gli schemi a cui siamo stati abituati.
“Giuseppi” Conte parla bene. Molto bene. Ha un eloquio fluente, ricercato, forbito, elegante come le sue cravatte di seta e i suoi vestiti sartoriali. È un linguaggio ricco di rimandi alla giurisprudenza, la sua disciplina, ma allo stesso tempo comprensibile, seppur con qualche sacrificio, anche a chi è digiuno di leggi e codici.
Rocco Casalino, portavoce del presidente del Consiglio, ha colto questa sua specificità e non lo ha mai indotto a modificarla nella direzione di un adeguamento al resto dei politici.
Anzi, ne ha amplificato la diffusione attraverso i punti stampa, nuova modalità di rilascio di dichiarazioni, poi adottata anche da molti ministri, ancorché criticata dai giornalisti. Appena fuori da Palazzo Chigi e non nell’ovatta della sala stampa. Insomma, sono istituzionale ma esco e parlo fuori dal Palazzo.
Le sue dichiarazioni non conoscono incertezze, egli non ha mai necessità di riempire i vuoti con quei fastidiosissimi “ehmmm” propri di chi non ha organizzato il pensiero successivo.
Il suo parlare è istituzionale, e per questo non è indicato per una trasmissione televisiva e per accontentarne le curve da stadio. Si addice invece alle dirette Fb, buone per tutti i tipi di linguaggio e dove parla a oltre 1 milione di persone.
Qualche salotto tv potrà anche invitarlo e lui potrà anche accettare, ma è evidente che la sua parlata è d’Aula, non di volgo. Nonostante si sia auto-definito “l’avvocato del popolo”, bisogna dire che, per comprenderlo bene, il popolo ha da fare qualche sacrificio in più.
Non ha rosari e Madonne in tasca pronti all’uso, nè ha quel gradevole accento toscano e quella mimica che rende simpatica anche una dichiarazione in cui proprio non ci si riconosce.
Ma possiede mitezza. Quella virginea e impietosa mitezza come arma bianca per dire tutto a tutti.
Mormorando, parlando quasi sottovoce, come un Marzullo a Palazzo Chigi. Senza urlare, ché poi in certi contesti è come e più che un urlo.
E allora: la mitezza di Conte lo auto-convince di esporre concetti rivoluzionari anche quando parla di una misura trita, ritrita super-ritrita come il “Piano straordinario per il Sud”.
Gli permette di annientare Salvini appoggiandogli amichevolmente una mano sulla spalla. O ancora, di governare con la stessa serenità oggi con questi e tra un’ora con quelli. Come fosse la stessa cosa.
Forse perché esondare dalla mitezza al politichese è un attimo (o 14 mesi).
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