“I ragazzi di Mogadiscio”: il documentario al tempo della rete
“I ragazzi di Mogadiscio” mi ha lasciato un senso di angoscia.
Sia chiaro, non per il tenore del prodotto. L’angoscia resta per il tema trattato, per la ferocia comunicativa con cui è capace di rivangare un ricordo che probabilmente avevo accantonato.
La missione di pace UNITAF (Unified Task Force), sotto egida Onu e comando USA, è uno dei miei primi ricordi nitidi. Quella italiana si chiamava IBIS. Ricordo il generale Aidid. Ricordo il checkpoint “Pasta”, il tenente colonnello Paglia. Ilaria Alpi e Milan Hrovatin.
Servendosi di immagini e testi, “I ragazzi di Mogadiscio” descrive la vita dei 7600 nostri soldati rimasti per un anno e 4 mesi (dicembre 1992-marzo 1994) nella capitale dello Stato africano.
Ma avevo rimosso queste memorie. Coordinati dal loro insegnate di Letteratura e Storia, il professor Paolo Radi (scrittore, regista e produttore dell’opera), i ragazzi della II E dell’Itc “Donato Bramante” di Pesaro hanno attualizzato la storia recente, partendo dal libro “Peace-keeping. Pace o guerra?” (Vallecchi, 2004) del generale Bruno Loi, che guidava le truppe italiane.
Il documentario, che ha ricevuto diversi premi ed è stato presentato anche a Islamabad, è stato realizzato all’inizio dell’anno scolastico 2013/2014 per ricordare due eventi in particolare.
Da un lato il XXV anniversario della battaglia del Check point “Pasta”, del 2 luglio 1993 – una carneficina che lasciò sul campo tre nostri militari e ne ferì 22 -, dall’altro l’assassinio di Ilaria Alpi, giornalista del Tg3, e di Milan Hrovatin, videooperatore, ancora oggi senza colpevoli.
Andrea Millevoi, sottotenente del reggimento Lancieri di Montebello, Stefano Paolicchi, sergente maggiore del 9° R. d’assalto paracadutisti Col Moschin, e Pasquale Baccaro, caporale di leva al 186° Reggimento paracadutisti “Folgore”.
I nomi dei tre Caduti nomi mi sono tornati in testa come un pugno.
Il documentario è dedicato proprio al loro ricordo, tutti Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria. Divisa in cinque capitoli – “L’ingresso”, “L’arrivo”, “Via imperiale”, “Non siamo tornati”, “Oltre Mogadiscio” -, l’opera alterna le immagini e le letture in aula a quelle dei militari italiani in Somalia.
A colpire è proprio la genuinità del prodotto: gli studenti impersonano sé stessi, quasi come una pellicola del Neorealismo trasportata nel 2019. Leggono, studiano, ripetono, schematizzano. Qualcuno di loro non capisce ma, come dice la voce fuori campo del ragazzo, quella è “una versione sintetica della verità storica”.
La naturale scarsa abilità cinematografica e attoriale dei ragazzi finisce per essere decisamente un punto a favore. Ne “I ragazzi di Mogadiscio” non c’è nulla di costruito, è tutto così naturale che ci riporta dritti tra i banchi di scuola, con la testa su un tema che non abbiamo mai studiato.
E bello vedere come il professor Radi sia riuscito a coinvolgere nel suo progetto tutti gli studenti della II E, che con serietà hanno portato avanti il progetto. Ed è bello vedere come, nell’era della rete, il documentario resti ancora un validissimo strumento di attualizzazione della storia.
Tuttavia, nell’opera si tocca con mano un altro aspetto, quello socio-educativo.
Come in una metafora della vita, i ragazzi sono i protagonisti, e la scritta in aula “Il futuro siamo noi” sta lì a ricordarglielo sempre.
Alla responsabilità del futuro si lega a filo doppio l’importanza della memoria. Ricordare il sacrificio estremo di chi si è battuto per un futuro migliore.
Ricordo che mi chiedevo: “Andare fin laggiù per morire. Ma perché?”. La Storia ha insegnato che, come spesso accade, il nostro Esercito conosceva le ragioni.
E la risposta la lasciamo al tenente colonnello Paglia, che da quel 2 luglio 1993 vive in carrozzina.
“Quella circostanza dovrebbe aver fatto capire l’importanza di non abbandonare le missioni di pace alle prime difficoltà. La Somalia, e Mogadiscio in particolare, ne sono esempio. Sono diventate negli anni successivi la vera e propria culla di organizzazioni terroristiche“.